Il paese dei gatti

Quel luogo in cui sai che non potrai restare, ma in cui devi andare lo stesso. Come i libri.

La femmina secondo Edoardo Albinati

downloadCon La scuola cattolica, Edoardo Albinati, Premio Strega 2016, racconta molte cose. La narrazione è un flusso di coscienza, di riflessione e ragionamento dell’Autore su tanti aspetti della nostra natura, della società e del mondo. In particolare in queste pagine, si domanda cosa significa essere maschio e cosa significa essere femmina? Cosa è l’amore e cosa la violenza, lo stupro? L’Autore è un Maschio, e il suo punto di vista esclude quello femminile, giocoforza. Ma leggendo queste pagine, anche una Femmina può riconoscere la verità di ciò che è scritto, seppure la visuale della narrazione sia estranea a sé. Per una lettrice, leggere queste pagine è come guardarsi in uno specchio (through the looking-glass…): ciò che la lettrice vede può essere tanto estraneo alla immagine e percezione che Lei ha di sé, da distorcere il suo volto in una espressione di orrore tanto simile a quella che Munch ha raffigurato ne L’Urlo; e la espressione di orrore e disperazione della lettrice sembra riflettersi in quella di pari orrore e sgomento dell’Autore che narra, guardandola, ed entrambi fissandosi sembrano l’uno lo specchio dell’altro e non si sa chi ha iniziato per primo a inorridire e disperarsi. Così le pagine sembrano tanti specchi, distorti nello sgomento, e la Lettrice legge le parole dell’Autore come uno specchio riflesso in altro specchio, in infiniti ritorni di immagini. La lettrice si vede nell’orrore e prova orrore, perché sa di non essere quella immagine riflessa, dipinta dalle parole (vere) dell’Autore, eppure sa anche ciò che legge è proprio ciò che Lei è. [E’ lo stesso Autore a ricordare (in altro passaggio) che la Sindrome di Stoccolma consiste proprio in questo, nella accettazione della immagine distorta di sé, che l’aguzzino, l’Essere dominante, restituisce]. Leggendo questi capitoli è impossibile non intravedere il Vero e non inorridire di Sé, in quanto femmina e donna, cioè della Vita e del Destino.

E riecheggia quella famosa battuta cinematografica “E’ che mi disegnano così!“…

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Camilla Filippi, in Psichedelic Breakfast (Brescia Photo Festival 2017)

(E’ lungo, lo so. Ma leggetelo, per favore. Il grassetto è mio).

Eccolo lì, dunque, il giovane maschio foruncoloso, trafelato, eccessivo, bipolare per natura, impegnato a correre la sua corsa a zigzag come in un videogame tra voragini che si gli aprono improvvise ai lati e gli ostacoli evitati per un pelo dell’omosessualità latente, del ridicolo sociale, dell’impotenza, del fallimento, o della pura e semplice capitolazione davanti alle donne. Tutti territori minati dove, se ci mette piede, salta per aria. La sua battaglia non è contro l’altro sesso, ma contro le paure generate dall’appartenere al suo. In quanto maschio gli sono stati additati degli standard da raggiungere e onorare, e nulla lo spaventa più del dubbio che la sua sia una mascolinità venuta male, incompiuta, ferita, frignante: come poi di fatto quasi sempre è. […]

Attrazione cameratesca, timore, terrore, competizione e soprattutto sensibilità, sì, sensibilità, un sensibilità pazzesca che mai nessuno immaginerebbe nei ragazzini e invece c’è, una sensibilità acuita e infantile verso i giudizi e gli sguardi degli altri ragazzi. Una ossessione legava i compagni di scuola e al tempo stesso li urtava e respingeva. Stavano tutto il tempo a commisurarsi per scoprire che posto occupavano nella scala della mascolinità, quale punteggio gli avrebbero attribuito gli altri. Le femmine rientravano in questa competizione solo perché facevano guadagnare posizioni nella gerarchia maschile, dunque servivano ai maschi per giudicarsi tra loro, per regolare i loro conti.

[…] Chi crede che siano solo le ragazze a comparare il proprio abbigliamento, si sbaglia di grosso: i maschi si scrutano persino con maggiore attenzione, e un occhio ancora più curioso e implacabile: nulla può far precipitare nelle gerarchie quanto una maglietta, un paio di scarpe o di pantaloni. Quando nella prima adolescenza da un giorno all’altro si crede di aver scoperto la differenza che passa tra essere maschi e essere femmine ha inizio una gara con lo scopo di distinguersi. Per dimostrare di aver compreso fino in fondo il ruolo, come attori insicuri, si esagera nell’interpretarlo, lo si sovraccarica di posture e atteggiamenti. […] fino a produrre delle imitazioni parodistiche di mascolinità e femminilità, delle caricature, [..] ragazzi che bestemmiano e ragazze che squittiscono. Per i maschi, il modo più semplice per dimostrare di esserlo è di disprezzare e respingere la femminilità: si tratta di un chiaro precetto negativo, la cui formula semplificata dice che per essere uomini, è sufficiente non essere donne. […] I padri […] piuttosto che incoraggiare il figlio a comportarsi in modo virile, studiavano ogni accorgimento per evitare che egli si mostrasse effeminato. Un ragazzino usciva dall’infanzia con una sola idea precisa, cioè quella di non venire coinvolto nel sesso. Qualsiasi interesse sia pur vagamente sessuale veniva considerato già di per sé femmineo. Ogni attenzione riservata
al corpo era tabù: guardarsi allo specchio, toccarsi, pettinarsi, curare l’abbigliamento. Il giovane maschio sano dovrebbe disprezzare tutto questo, essere trasandato, lavarsi poco, lasciare i peli crescere là dove spuntano contorti. L’oggetto in cui si riassume questa puzzolente sciatteria sono le scarpe da ginnastica (si chiamavano così allora, adesso in italiano sono senza nome). […] L’inesausta ricerca di compagnia, approvazione, similarità e solidarietà che i maschi esigono dagli altri maschi, se viene frustrata, scatena un risentimento persino più forte di quello che può provare verso l’altro sesso: essere respinti da un simile conduce a un’incertezza drammatica sulla propria identità, persino peggiore dei rifiuti relativamente scontati che si riceve dall’altro sesso, […]

Burt Glinn Ad Reinhardt MoMA 1964

Burt Glinn Ad Reinhardt MoMA 1964

Ufficialmente, se c’è una cosa di cui gli uomini paiono soddisfatti al punto da vantarsene, è di non essere donne; ma sotto sotto circola una curiosità, un’invidia e persino un desiderio o una brama sfrenata di essere, diciamo così, per prova, una donna, e pensare con la testa di una donna, e sentire i fianchi che ondeggiano e il petto che sobbalza, e il cuore che batte in un modo diverso, e poi godere come una donna e piangere come piangono le donne, e se l’esperimento dovesse durare nel tempo, ecco miracolosamente restare incinta, e partorire come una donna… tutte cose precluse, da cui gli uomini sono attratti e spaventati.

[…] Cosa vuol dire allora essere maschi? Come e grazie a cosa si viene riconosciuti come maschi? […] essere maschi significa non essere come effettivamente si è, ma come si dovrebbe essere. Il maschio non è qualcuno che è maschio, ma qualcuno che deve esserlo, e in questo dovere sta la sua essenza. Il maschio è dunque un nonessere o piuttosto un essere-per, un essere potenziale, una volizione, un’eventualità, un concetto limite, un’idea normativa.

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Arthur Leipzig

[…] Qual era questo ruolo? Che costo pagavamo? Io personalmente l’ho pagato. In questo libro ho raccontato e racconterò qualche episodio di come e dove e quanto ho pagato, insomma, le rate del mio debito di maschio. Di come non sono mai riuscito a estinguerlo. Di quanto fosse ingiusto ma inevitabile esigerlo, quel debito, da me come da tutti i miei compagni e da tutti i maschi che si sono affacciati, si affacciano e si affacceranno alla soglia (dovrei dire sul burrone?) dell’adolescenza. Delle donne ora non tengo conto: il loro conto, altrettanto salato, lo pagano a parte, ognuna la sua quota. C’è di sicuro una divinità femminile a cui si pagano questi tributi, forse simile all’Artemide di Efeso, o a qualche tettona pre-colombiana, o a Kali, oppure a un Cherubino.

[…] E poi non esageriamo con questa compattezza tra maschi. Un uomo è certamente diverso da una donna, ma in verità è anche diverso da tutti gli altri uomini. E anzi può risultare assai più diverso da un buon numero di uomini di quanto lo sia da certe singole donne. […] Quando si realizza che quelli che dovrebbero essere come te non lo sono affatto… ecco, viene da dire, io non sono affatto come loro… io non sono affatto come loro, sebbene abbia anch’io un affare che mi pende tra le cosce. Questa apparente somiglianza non fa che aumentare la divaricazione, sino a renderla intollerabile. Si tratta dunque di due tipi di diversità, che troppo spesso vengono confusi: una interspecifica, l’altra intraspecifica. […]

Si usa come metro di giudizio la capacità di tenere sotto controllo l’incertezza, di eliminarla o soffocarla o almeno non lasciarsene sopraffare… e l’incertezza a sua volta è ingenerata dalla personale incapacità di rispondere adeguatamente alle situazioni di sfida, di pericolo, novità, o al semplice contatto con gli altri. Per alcuni (io sono tra questi) è una immensa sfida trovarsi in una medesima stanza con altre dieci persone: ho l’impressione che tutti mi guardino, mi giudichino, mi sfidino, vogliano minacciarmi o sedurmi o essere sedotte da me, oppure lo facciano apposta ad ignorarmi: mentre la verità è che non gliene frega niente a nessuno di chi sono o cosa faccio. L’incertezza proviene dal sentirsi minacciati, e al tempo stesso desiderare, che si realizzi un’intimità emotiva…

Il giovane maschio va ulteriormente mascolinizzato. La mascolinità di cui dispone, in nove casi su dieci, è incompleta, deforme, brancolante, incerta, va rimodellata e fissata. Se inclina verso il femmineo, va raddrizzata e sviata. Se al contrario è troppo accentuata, occorre porle un freno. Non solo la forza è indicatore di mascolinità, ma ancora di più lo è la capacità di porla sotto controllo […]

Il vero contrario della mascolinità non era la femminilità bensì l’omosessualità: un’ombra minacciosa, un confine pericoloso. L’ideale mascolino era definibile in negativo: l’esatto opposto di un uomo non era una donna, ma un frocio. La paura più intollerabile per noi maschi era che si ridesse di noi… Sapete cosa significa combattere tutto il tempo, tutto il tempo, contro paura e vergogna? Parlo del terrore di essere preso in giro, di essere considerato una checca.

Di quando ero più piccolo ancora… al parco… ricordo giochi drammatici e conturbanti a cui erano affibbiati nomignoli come “nascondino”, “acchiapparella”, che non dicono niente dell’immane frustrazione, anzi, della disperazione di chi veniva scoperto o fatto prigioniero, perché non era stato abbastanza svelto o abbastanza furbo, la vera vittima di quei giochi crudeli, e doveva contare sulla velocità e lo spirito di sacrificio di qualche altro compagno per venire liberato. Ricordo che le ragazzine erano contaminanti, volevano sempre baciarti, ti rincorrevano già con le labbra sporte in fuori. Ricordo l’odio che provavo verso le ragazzine ciccione e occhialute e l’amore istantaneo verso quelle belle. Ma anche quelle belle erano destinate a subire angherie. Venivano invitate a giocare, per esempio a saltare la corda, e per un po’ tutti giocavano regolarmente, i ragazzini facevano oscillare la corda al giusto ritmo perché le ragazzine lo saltassero… poi quelli che reggevano la corda  acceleravano o invertivano il giro e la ragazzina finiva per inciampare nella corda, cadere, tutti scappavano ridendo o strillando. Loro erano così abituate a essere disturbate, interrotte o ingannate nel corso dei loro giochi, o ad avere i giocattoli rubati o distrutti, da aver sviluppato dei rituali di riparazione ai guai che gli combinavano i maschi: se i colpevoli non erano già scappati per conto loro, li cacciavano via, con un sospiro di rassegnazione già adulta, riprendevano il gioco, consolando chi piangeva. Facevano finta che non fosse accaduto niente. «Ah, quegli sciocchi…» era il commento, e se erano un po’ arrabbiate certe volte erano anche un po’ divertite dagli stupidi scherzi che subivano.

penetrare lo spazio degli altri
lo spazio delle ragazze…
violare il loro spazio, i loro discorsi…
violare il loro corpo

I bambini forse non sanno cos’è il sesso, ma sanno benissimo cos’è la sopraffazione, quindi sono inclini a interpretare il sesso come sopraffazione («Il papà sta facendo male alla mamma e infatti lei strilla…»). Alcuni mantengono questa identificazione una volta diventati adulti.

Scherzare è il primo passo che conduce a fare sul serio, una specie di prova generale. La recita dell’aggressione alle ragazzine era innocua solo perché e finché era una recita, ma il suo contenuto restava valido una volta terminato il gioco, come qualcosa da poter sempre mettere in pratica quando sarebbe venuto il momento. Fare le cose per scherzo è il modo più efficace per imparare a farle sul serio. Terrorismo giocoso.

E una volta cresciuti, ecco, la sensazione frustrante di dover aver la meglio su una donna per scoparla. È un’idea abbastanza fondata, dal punto di vista psicologico, ma al tempo stesso sul piano fattuale non è vera per niente, almeno per me e credo per quelli della mia generazione. Se ripenso alle donne con cui sono andato a letto in vita mia, be’, diciamo che un terzo, sì, mi ha fatto un po’ penare. Qualcuna abbastanza, qualcun’altra solo ritualmente, non saprei. Quelle che mi davano da penare troppo le ho lasciate perdere ma non ho la controprova di aver fatto bene. Forse se avessi insistito, chi lo sa… Delle altre, una metà (dunque un ulteriore terzo del numero complessivo) aveva in mente le stesse intenzioni che avevo io e ci siamo ritrovati l’una nelle braccia dell’altro con tempismo. Il restante terzo mi è saltato addosso.

Respingere, respingere, respingere. Nel nostro destino di giovani animali maschi c’era scritto questo: che i maschi separano, le femmine uniscono. Fin a partire da come è fatto o come dovrebbe essere fatto il loro corpo, il maschio definisce, distingue, individua; la femmina accoglie, accomuna, confonde. Lei aspira all’unione, noi aspiravamo alla separazione…

Ai miei tempi e nella mia classe sociale la ragazza tipo era: fragile, vaga, docile. Biondina ma non proprio bionda. Silenziosa ma non proprio triste, gli altri la fanno ridere, ogni tanto. Tu puoi farla ridere, ad esempio, anche se non sei un campione di simpatia, a lei sembra bastare. Sosteneva il primo grande esploratore della mente che le fanciulle apatiche godono di un’alta quotazione sul mercato matrimoniale. Un
uomo può prenderle così come sono, vuote, e riempirle coi contenuti che gli fanno più comodo, reali, immaginari. Questo era vero ai suoi tempi ma era vero anche ai miei. In fondo cosa c’è di meglio di un maschio definito, determinato, che però ama mostrarsi indulgente verso una fanciulla vaga e inconcludente? Lui cavalleresco lei deliziosa: che coppia perfetta.

[…] Già a quei tempi la mascolinità veniva considerata in crisi, minacciata, visto che si doveva recuperarla, riaffermarla contro il pericolo rappresentato da donne omosessuali e hippies. Occorreva reagire. Non starsene con le mani in mano. Non assistere indifferenti allo sfacelo. Reagire, reagire, reagire contro la degenerazione della civiltà che aveva reso gli uomini sempre più simili alle donne, vedi la moda dei capelli lunghi, egualmente detestata dai fascisti, da Pierpaolo Pasolini e dai vecchi operai comunisti. I fascisti volevano dei sani e vigorosi ragazzi italiani pronti a combattere, Pasolini li voleva con la nuca rasata e il ciuffo sulla fronte, gli operai erano all’antica.

[…] L’ossessione era sempre quella dell’identità maschile: confonderla e riavvicinarla a quella dell’altro sesso (capelli sulle spalle, orecchini eccetera) o al contrario credere di custodirla a colpi di forbici e rasoio. Esistevano allora ed esistono ancora i custodi del mito virile. Ai loro occhi, la femminilità infetta, rammollisce, induce flaccidità. Vedono la femminilità come un’infezione, temono di esserne contaminati, custodiscono la virilità come un sistema chiuso, compatto, impermeabile alle mollezze che il contatto con il femminile evoca e provoca. Il timore cioè di essere riportati indietro alla condizione di dipendenza del lattante. Il cazzo è duro finché, dopo il rapporto sessuale, si ammoscia. In verità lo era anche prima del rapporto, ma quello che colpisce è sempre il dopo, come la domanda su cosa ci sarà dopo la morte spaventa sempre più di quella su cosa ci fosse prima della vita. Comunque la si metta, il sesso è svigorente. Viene considerato non come una prova di potenza, ma al contrario come causa principale della sua perdita. Viene perciò svalutato o temuto. Tutto ciò ha un’evidenza plastica: con l’amore, da rigido e robusto, il corpo si fa languido, tenero, rilasciato, molle, come, appunto, quello di una donna… Il sesso sarebbe allora nient’altro che un inganno o una trappola tesa dalla donna all’uomo per svirilirlo, renderlo meno mascolino e quindi assoggettarlo.Sottometterlo usando una magia capace di provocare la debolezza, di prosciugare le energie o sviarle verso una vita animalesca come quella degli uomini mutati in bestie da Circe (interessante che Ulisse usi in modo preventivo il sesso per impedire questo: assoggetta la maga costringendola al coito, che, curiosamente, indebolisce lei, non lui! È un rarissimo caso di rovesciamento della regola, che invece vige in modo inflessibile persino presso gli dèi, per esempio Ares ed Efesto, l’uno amante l’altro sposo, entrambi messi fuori combattimento dalle arti amatorie di Afrodite). Il sesso è il mezzo ma al tempo stesso il fine dell’opera di seduzione: è ciò che l’uomo ottiene come risarcimento ludico per aver accettato il dominio femminile, una gratificazione che assoggetta nella realtà coloro che rende felici in apparenza. Credono di avere vinto, ma quello che ricevono è un premio di consolazione. Il fascino femminile è perciò una declinazione particolare e, per così dire, flessibile della forza. Si manifesta non banalmente sotto forma di durezza, bensì secondo sottigliezza e invisibilità. Insieme all’attrazione, i maschi provano sempre un vago terrore o ripugnanza dell’intimità, temono quella con le femmine e quasi altrettanto temono di desiderarla nei confronti di altri maschi, un desiderio scandaloso che va represso. Il fatto di desiderare e di inibire il desiderio può ripetersi ogni volta oppure essere accaduto una volta per tutte durante l’adolescenza, quando in modo più o meno consapevole si fa la propria scelta sessuale. La prima volta che i ragazzi si troveranno ad essere abbracciati a una donna, gli manca il respiro, si sentono soffocare, intrappolati. Altro che possedere, conquistare, dominare! Un uomo si sente avviluppato dalle spire, avvinghiato dai tentacoli, sepolto nella cedevolezza delle forme di un corpo femminile e quando entra dentro di lei è come se entrasse nella sua tomba. Con immenso piacere e sgomento, la sconcertante novità della morbidezza.

[…] Sport, consumo e pornografia, i grandi surrogati contemporanei dell’esperienza, i succedanei della guerra: sforzo, appropriazione fisica illimitata di beni e di corpi. Lo scopo di una gara sportiva è semplice, inequivocabile: vincere. Il resto sono chiacchiere. O la palla entra in rete o non ci entra, inutile disquisire, anche se i frustrati lo faranno per settimane o addirittura per anni, sul gol non concesso, sulla palla
finita fuori di un soffio… il risultato resta uno solo. La legge è quella del più forte e il più forte è chi ha vinto. Qualcosa di simile a questo spirito categorico, brutale e ingiusto quanto si vuole ma almeno chiaro, si applica al corteggiamento: alla fine ci hai scopato? Ci hai scopato o no? Il resto sono chiacchiere.

[…] ricordo senza alcun rimpianto, almeno un paio di non-scopate, anzi di più, almeno tre o quattro episodi tra i tanti in cui il mio pallone è finito sul palo, il
rigore è stato sbagliato o nemmeno tirato, per indolenza o fatalità o goffaggine o scarsa perspicacia o un curioso disinteresse subentrato all’ultimo momento: conclusione di un singolare desiderio di giocare, sì, ma soltanto un po’, di giocare, per così dire, in amichevole, senza alcuna posta in palio, senza che nessuno vinca niente. Senza necessariamente andare a dama, senza intingere il biscotto, per usare le esplicite figure retoriche della tradizione (romana, coatta). Un tempo credevo che questo spirito fosse un’esclusiva femminile. Un po’ provocatorio, capriccioso, naturalmente inconcludente, tanto per vedere cosa si alza in giro. Alle donne spesso piace spargere un po’ di polverina magica intorno, sbattere le ali, scaldare la temperatura, così, tanto per farlo, senza volere in realtà nulla e nessuno di preciso… e poi fermandosi a un certo punto senza un perché, senza dare ragioni, spingendo il gioco molto avanti per poi interromperlo di colpo, e buonanotte… cosa che manda in bestia parecchi uomini e in certi casi ha fatto scervellare anche me. Ma come, ci sei voluta venire tu qui da me, e ora, già mezza spogliata, ecc. ecc.
Eppure posso dire di aver fatto più o meno lo stesso con certe donne, lo stesso che certe altre donne avevano fatto con me: passare dal pedale dell’acceleratore a quello del freno, o meglio, a quello della frizione, che fa girare il motore a vuoto: si sente ancora il rombo ma la macchina rallenta, e si ferma… l’eccitazione è al suo culmine, è davvero necessario proseguire? Vi è un attimo meraviglioso e spensierato, insensato, in quella sospensione… O forse un timore profondo, chissà… Timore di cosa?
E dunque se ho provato anch’io la stessa cosa, vuol dire che uomini e donne sono più simili di quanto si pensi? Che tutta la retorica dell’andare a segno ad ogni costo è falsa? O non è solo maschile? O che una volta che ci si butta a corpo morto in un’impresa di seduzione, di scopare non importa più di tanto?

A controbilanciare questi, ci sarebbero altri episodi in cui ho finito per voler scopare a ogni costo, quasi facendo forza su me stesso, quasi a occhi chiusi, pur di onorare il principio di concludere, di non andare in bianco. Coiti fuggevoli e insensati in cui se ho violentato qualcuno, ho violentato me stesso, e come un atleta che stringe i denti all’ultimo giro di pista pensando solo al traguardo, sono riuscito a tagliarlo solo per crollare subito dopo nel disinteresse totale.

[…] Forse non realizziamo quanto una grande parte (oggi, la quasi totalità) della nostra esperienza sessuale sia indiretta e vicaria. Per quanto a lungo e quante volte noi possiamo aver baciato toccato e fatto l’amore, bene, un milione di volte di più abbiamo visto, letto, sbirciato, spiato, ascoltato qualcun altro che lo faceva o raccontava di averlo fatto. In una sola schermata di un qualsiasi sito on-line lampeggia in pochi secondi più sesso di quello che abbiamo fatto e faremo in tutta la vita. […] Anche ponendo che uno in vita sua abbia conosciuto solo la donna che ha sposato, be’, questo già fin dall’inizio non è vero: nel suo letto ce ne sono state almeno mille o diecimila di donne, cioè, quante ce ne sono state nei suoi occhi, nude, fin da quando era ragazzino. E parecchie di queste le avrà divise con moltissimi altri uomini. Insieme a questa folla si sarà formato un’immagine della sessualità che è assai più vasta di quella registrata dal suo osservatorio coniugale. La sproporzione tra l’attività reale e quella immaginaria, cioè, fatta di immagini, ma non meno concreta della prima, dà quasi le vertigini. Lo stesso si potrebbe dire del rapporto tra quello che a ciascuno tocca vivere, e le esistenze alternative vissute per interposta persona leggendo romanzi o guardando film. Io confesso di non aver avuto mai fantasie erotiche su donne famose, attrici, indossatrici eccetera, Kim Basinger piuttosto che Monica Bellucci o le modelle di Victoria’s Secret o le piccole dive televisive; mi stuzzicano molto di più le anonime ragazze che lampeggiano in rete o quelle delle vecchie foto dei giornalini porno; e mi è successo di pensare alla quantità di sperma che le immagini di queste donne in abiti succinti o spogliate hanno prodotto e fatto schizzare dal sesso di milioni di uomini… e che il loro successo in definitiva si esprimeva in questo tributo di seme maschile, applausi frenetici e seme, contratti milionari e seme, foto glamour sui rotocalchi erezioni e liquido seminale, e insomma si dovesse a quella specie di onanismo globale che ha impiastricciato kleenex di mezzo mondo. Non troverei una migliore formula per definire l’Occidente se non come la parte del mondo che ha conosciuto questo, che ha condiviso questo, che ha inventato e avuto l’esclusiva di questo.

[…] Il corpo stesso, del resto, produce fantasmi in abbondanza, vive in modo febbricitante sollecitazioni fittizie, come se fosse del tutto scollegato dalla realtà. Ad esempio le erezioni: innumerevoli. Ma assai di rado destinate a concludersi nel coito. Dunque, a che servono? Perché questo ininterrotto falso allarme? E perché quando invece l’allarme suona sul serio, e non si tratta della solita esercitazione, magari non risponde? Una volta inaugurata una carriera sessuale, star sempre a verificare la propria potenza, a misurarla, a testare e spiare le prestazioni del proprio organo sessuale, quel povero cencio surriscaldato, la sua capacità di rizzarsi e restare per aria, ejaculare, quante volte, in quanto tempo, con quale intervallo. Ogni volta dubbi, domande, ansia, aspettative, calcoli, accorgimenti, ritrovati, dalle pillole Taurus all’orribile zabajone, che doveva “darti la carica!”…

[…] L’immagine di gran lunga più frequente e frequentata sul web è quella di una donna senza vestiti. Cosa può spiegare che ieri io abbia passato almeno un’ora a cercare on-line le foto di una modella belga magra con grosse tette? Perché la libertà sessuale somiglia tanto a una schiavitù? […]

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Audrey Kawasaki, Forever Still – Thinkspace Gallery SCOPE Miami Beach Art Fair 2013

Com’è che il bene per cui gli altri prima di noi hanno lottato si trasforma così rapidamente nel male contro cui dobbiamo lottare? Più la mia libertà cresce più mi rendo schiavo. Sessualizzazione del dominio. Una sessualizzazione che investe ogni angolo e aspetto della vita, per lo più di stampo commerciale: dal cibo al lavoro a come si vestono le bambine e le spose, al modo di vendere un pacchetto-vacanze… sessualizzato è il potere, sessualizzato è il calcio, sono sessualizzate l’infanzia e la vecchiaia, ipersessualizzata la guerra… pura pornografia la politica… il giornalismo, poi, o ciò che ne resta, un ininterrotto messaggio erotico, un erotizzazione integrale con in mezzo qualche fatterello, qualche alluvione, rivoluzione, terremoto… aerei precipitati… Eppure una vera libertà sessuale dovrebbe comprendere anche libertà dal sesso. Più che pedagogia è una vera e propria dittatura […]

Le sevizie subite da una donna possono sempre essere rivendute come intrattenimento. Le macchie di Rorschach della violenza danno risposte fisse. Si vede un uomo nudo torturato e viene in mente una persecuzione politica o una vendetta criminale.Si vede una donna nuda torturata e quello che viene in mente è il sesso. I tabù più indicibili se vengono violati all’interno di un’intenzione pornografica, invece che provocare sdegno, provocano eccitazione, oppure le due cose insieme, questa appena nascosta sotto il velo di quella. Nella prosa usata per descrivere un crimine sessuale dalla stampa popolare, è deliberato l’uso di una tonalità che deve stuzzicare i lettori. Per non parlare della tv che intrattiene un rapporto persino più morboso con i suoi spettatori, ai quali fornisce dalla mattina alla sera, attraverso i suoi vari formati, dai notiziari ai serial di finzione, confinanti l’uno con l’altro ma spesso confusi e sovrapposti tra loro, una permanente celebrazione del crimine erotizzato, l’eccitante più potente al mondo, dato che intreccia in un unico gesto le pulsioni fondamentali. Tra un criminale in carne e ossa e quelli di fantasia non vi è oramai che un grado di separazione o magari nemmeno quello, da quando si è scoperto che il primo fornisce un ottimo materiale per costruirci i secondi, o direttamente sostituirli. Il più florido e ubiquo commercio mondiale, il mercato della pelle, continua a estendersi senza limiti fino a formare un continuum pornografico che include i territori della cronaca nera, dato che in questi ultimi galoppa più sfrenata l’eccitazione, ben camuffata dietro la condanna morale che si suole riservare ai fatti realmente accaduti. Ma è solo una facciata. Nulla è comparabile al brivido che danno i corpi in carne e ossa, il sangue spillato sul serio, le femmine violate e uccise per davvero, da cui nasce infatti la leggenda e l’alone quasi sacro che circonda gli snuff movies. Sull’onda dell’immaginario sessualizzato, una sensazione di continuità si propaga attraverso lo spazio come nel tempo. L’olio che luccica sui culi delle attrici porno si è spalmato su tutto il mondo, lo avvolge come una patina traslucida, il suo riflesso tremolante illumina di notte le veglie e di giorno la noia ai computer di milioni di maschi. Non ci vuole alcuno sforzo per tradurre eventi reali in fantasie pornografiche, e viceversa: la più scarna e oggettiva esposizione di fatti riguardanti crimini sessuali si trasforma in un racconto erotico, dove gli stessi elementi morbosi che procurano indignazione e orrore, servono a stimolare eccitazione. È comunicandosi in questo modo, che l’immagine in principio cruenta e disgustosa, diviene pornografica, cioè, altrettanto cruenta e disgustosa, ma nondimeno eccitante. La pornografia consiste appunto nell’eccitazione che un oggetto riesce a provocare deliberatamente in un soggetto, sia consapevole sia passivo: un’eccitazione che può venire calcolata in anticipo e tarata secondo standard millimetrici in grado di prevedere con precisione l’effetto che possono fare una certa parola, un’immagine e persino un frammento di quell’immagine, un centimetro di pelle fotografato un centimetro più in alto o più in basso del solito… La ritroviamo nei titoli di giornale, nella pubblicità dei prodotti, nelle scene di violenza, negli oggetti sistemati in una vetrina, nell’ininterrotta catena di doppi sensi che costituisce il novanta per cento della comicità televisiva, nelle barzellette raccontate negli spogliatoi delle palestre. E infatti sullo schermo, che è lo specchio della vita, lo specchio dei desideri e delle paura della vita, non fanno altro che scopare o ammazzare gente, ammazzare o scopare. Nei film gialli, neri, horror, sentimentali, polizieschi, psicologici, erotici, di guerra, di avventura, ammazzano o scopano come se fossero le due azioni fondamentali
nella vita umana, le uniche degne di essere raccontate. Innamorati e assassini; donne spogliate e corpi crivellati. Niente di più ovvio dunque che connettere le due cose e ridurle in un unico gesto dove si scopa e si ammazza senza soluzione di continuità. 

Lo stupro è contiguo o intrecciato ad altri atti di violenza, la guerra, la rapina, la vendetta, di cui può rappresentare il culmine, lo scopo iniziale o quello di ripiego, l’accompagnamento, la traslazione, la variante, l’invenzione improvvisa. Se un rapinatore resta a mani vuote, può sempre violentare la padrona di casa. Se la violenta, potrà sempre ucciderla. Se aveva pensato di stuprarla, può rinunciarvi e invece picchiarla fino a farle perdere i sensi. Oppure fare tutte queste cose insieme. Stupro e saccheggio vanno sempre insieme. Quando c’è poco da saccheggiare, si può sempre violentare: il principio dell’appropriazione violenta si applica più o meno nello stesso modo alle cose e agli esseri viventi. Una volta finito di bruciare e distruggere, resta comunque il corpo da devastare: o lo si perfora con lame e pallottole, oppure con il membro e con oggetti che ricordano la sua forma. […]

Come in guerra, la linea di condotta varia a seconda del variare ogni minuto della situazione, con una tattica di adeguamento al terreno e all’avversario; oppure, al contrario, la missione viene perseguita ciecamente, a ogni costo, fino in fondo, in modo esclusivo: si esce in cerca di una donna da violentare e alla fine una donna si violenterà. Ci puoi giurare. Circa due terzi degli stupri sono stati pianificati, come quello che descriverò più avanti in questo libro e che nacque nell’ambiente che vado descrivendo. Ben lungi dall’essere un crimine che si commette per l’urgenza di incontrollabili istinti, lo stupro viene spesso ideato a tavolino, specie se non è un singolo bensì un gruppo a progettarlo, scegliendo il bersaglio con cura e facendo tutti i passi necessari a mettersi nei suoi confronti in una posizione di vantaggio tale che essa non potrà reagire e opporsi, senza rischiare la vita. O rischiandola anche qualora non si opponga. Lo spunto da cui nasce questo libro è il cosiddetto Delitto del Circeo, 29 settembre 1975: d’ora in avanti DdC. […]

lo stupratore si comporta sempre come il soldato di un esercito d’invasione. Ha la stessa mentalità guidata dall’idea di vendetta e saccheggio. L’uomo le cui donne (mogli, madri, figlie, sorelle) vengono violentate è costretto ad ammettere la sua impotenza, e dunque il suo scarso essere uomo. È invece degno di essere definito un vero uomo, colui che si dimostra capace al tempo stesso di proteggere le proprie donne e di oltraggiare impunemente le altrui. Seguendo con attenzione le pieghe di questo ragionamento si riesce a comprendere come parecchi atti di violenza sulle donne non siano in realtà rivolte contro di loro, o non solo, ma vadano intesi come oltraggio o sfida o scherno ai loro uomini. Sono altri uomini che i violentatori vogliono colpire di rimbalzo. Il corpo delle donne violentate è nulla più che il supporto fisico usato per spedire un messaggio ai loro uomini: chiaro, brutale e beffardo. Ecco la ragione per cui spesso il marito o il padre o il fidanzato della donna, immobilizzato, viene costretto ad assistere allo stupro che essa subisce: non si tratta di un surplus di violenza sadica, piuttosto del vero significato dell’azione. Un’affermazione quintessenziale di supremazia. Facendo violenza a una persona se ne colpiscono due. La virilità dunque viene misurata come capacità sia di proteggere le donne sia di aggredirle. […]

L’affermazione della mascolinità parrebbe implicare la sottomissione dell’elemento femminile. Un sesso si afferma nell’assoggettare l’altro? È lo schema semplificato secondo cui ogni essere, per affermarsi, deve assoggettare gli altri esseri. Si esprime la propria volontà vitale solo piegando la volontà altrui. Se si immagina dunque in questo modo un’essenza specifica del maschile, essa si realizza nel dominio del femminile, ma potrebbe anche darsi il reciproco, e cioè che a sua
volta il femminile si mostri nella sua potenza e nella sua autentica natura, quando viene a capo del principio maschile: solo che invece di ricorrere alla forza fisica, di cui dispone in quantità minore, esso ricorre all’astuzia, alla seduzione, all’illanguidimento della forza contrapposta, fiaccandola, simulando arrendevolezza e sottomissione solo per prendere in modo subdolo il sopravvento. È la tipica strategia, la risorsa estrema di chi è subordinato, l’antica scuola degli oppressi che insegna a rovesciare i rapporti di forza non con un atto clamoroso, destinato a fallire, ma con una lenta invisibile silenziosa conquista… È per questo che, come contromossa, la spada della forza taglia la nube della seduzione. Come Alessandro che taglia di netto il nodo di Gordio, non più dilemmi, niente più grovigli e sottigliezze e finte e corteggiamenti e schermaglie, bensì un gesto. È l’etica virile di cui si farà emblema l’attivismo fascista: una clava contro le ambiguità e i sofismi, un manganello sulla testa di chi temporeggia, muove obiezioni, recalcitra, si schermisce, di chi si sottrae o sottilizza o gioca. Ecco come si giustifica l’agonismo dell’uomo: egli prevarica la donna, deve prevaricarla, per non essere a sua volta sottomesso. È una mossa preventiva: se l’elemento femminile non viene combattuto finirà per soggiogare quello maschile – o con l’amore sessuale o con l’ingranaggio familiare. L’uomo finirà comunque incatenato. A fronteggiare e tener testa alla femminilità non basta l’individuo comune, ci vuole un eroe. Capace di dominarla e renderla inoffensiva. Ma persino un eroe talvolta
retrocede piegandosi all’evidenza che la donna possiede ed esercita una facoltà superiore alle sue, e a tutte le altre, inarrivabile, quella del concepimento. Impossibile sottomettere quella potenza enigmatica, quella forza tellurica. L’eroe combatte la femminilità come uno dei tanti mostri che gli sbarrano la strada – giganti, draghi e dragonesse – ci si scorda quanto spesso quegli esseri sovrumani siano femmine, Medusa, la Sfinge, l’Idra, la cerva fatata di Basile, la madre di Graendel nel Beowulf, la pitonessa uccisa da Apollo, per non parlare delle Sirene e delle Arpie, seducenti e schifose. L’eroe lotta per venire a capo della materia, nel nome della spiritualità (maschile) contro il corporeo (femminile) e per questo non può che uccidere o soccombere, al fine di cancellare ogni residuo materiale. La verità è che il maschio tollera a fatica la sessualità femminile in qualsiasi forma essa si esprima: ogni atteggiamento assunto da una donna può causare in un uomo risentimento o disprezzo o timore: sia che essa rifiuti il rapporto, sia che si conceda con troppa disinvoltura. Castità e sregolatezza erotica appaiono altrettanto sgradevoli e temibili, due atteggiamenti devianti. Non si può sopportare che una donna sia ostile al sesso o ne sia maniaca. Ma anche la cosiddetta normalità offre il suo lato inquietante. L’uomo depreca e al tempo stesso invidia la sessualità femminile in quella che si suppone la sua facoltà più ovvia, e cioè la maternità, sia pure regolarizzata all’interno del matrimonio: ne è spaventato, messo in soggezione, oscuramente teme lo sviluppo di qualcosa che è del tutto sottratto al suo controllo. Certo, come padre potrà godere e andare orgoglioso dei suoi figli: ma dovrà sempre in qualche misura adottarli, anche se sono davvero suoi, dovrà comunque farli suoi. Dunque quasi ogni declinazione della sessualità femminile ferisce l’uomo, lo attrae e insieme lo irrita, lo spaventa e lo soggioga, o lo rende pazzo. Lo avvilisce o lo fa montare su tutte le furie la donna che nega la propria femminilità rifiutandosi al rapporto, quanto quella che all’opposto si concede in modo promiscuo a chiunque, e infine persino la donna dal comportamento ordinario, nell’innocuo ambito della monogamia, che per il semplice fatto di restare gravida incatena l’uomo alle responsabilità e ai doveri.Lo impiomba per sempre. In questo senso il matrimonio può essere persino più micidiale della castità, della promiscuità e della prostituzione. Inutile dire che la famiglia tradizionalmente un uomo la senta come un’invenzione e un’esigenza femminile. Un’intrapresa che fin da subito si rivela faticosa e costosa da gestire. Sia essa una beghina,o una ragazza di facili costumi, o una madre di famiglia, l’uomo rimane turbato dalle facoltà sessuali di una donna, dalle implicazioni che queste comportano nel tempo, che rappresentano per lui una sfida, una provocazione: la donna va vinta, o protetta, o salvata, o respinta, ma in ogni caso occorre diffidarne, aggirare i suoi inganni, non restare incastrati dalle sue mosse, premunirsi contro la sua minaccia. Ma cosa ci sarebbe in una donna di tanto minaccioso? La sovrabbondanza di vita implicita nella sua natura. La vita, un affare pericoloso. Se il poeta scrive che Aprile è il mese più crudele, vuole dire che l’esuberanza vitale è un rischio e una sofferenza. Non lascia mai in pace l’uomo, lo tormenta. Contro questa esuberanza incontrollabile dell’elemento femminile, l’uomo combatte una battaglia ascetica. Anche se non lo confesseranno mai, i maschi provano una paura atavica del sesso, del contatto con l’altro sesso; il timore originario che ne hanno è almeno pari alla curiosità e al desiderio. Il tremito e il recalcitrare della vergine di fronte al fallo eretto è in fondo più semplice da spiegare e ovvio dell’esitazione, della riluttanza maschile nell’avventurarsi dentro una donna, letteralmente, al suo interno. Cosa li aspetta al termine di questo viaggio iniziatico? Vale davvero la pena intraprenderlo? Forse la cosa che temono di più è la propria arrendevolezza, cioè di abbandonarsi all’influsso, all’influenza dell’elemento femminile, intervenuto a turbare il loro equilibrio già di per sé precario. Allora devono mostrarsi ostili verso le donne più di quanto si sentano di esserlo nella realtà: questa recita di ostilità è indirizzata agli altri maschi perché non si sentano traditi da chi dimostra troppa attenzione verso le donne e poca verso i compagni. Per questo chi si fidanza e si distacca da un gruppo di amici e si isola nel suo sogno d’amore, viene sempre malvisto e considerato perduto, uno che, poveretto, si è bevuto il cervello. Egli diventa all’istante il bersaglio di battute ispirate da invidia e compatimento, misti a disprezzo… Difficile che, in una forma o in un’altra, nella realtà o sul piano simbolico, un uomo anche indipendente e vigoroso non finisca per inchinarsi dinanzi all’inspiegabile potere che la donna esercita nei suoi confronti. Per quanto brutalmente egli manifesti la sua forza e affermi la sua autonomia, un vincolo sottile ma resistente finisce per catturarlo, e cosa ancora più imprevedibile, quasi sempre col suo tacito consenso e producendo in lui una curiosa singhiozzante felicità. Egli si bea del dominio instaurato su di lui: il che fa pensare che la felicità allo stato puro proprio in questo consista, nell’abbandonarsi, nell’abbandonarsi a qualcosa di misterioso, di portentoso, che si percepisce al tempo stesso come naturale. Smettendo perciò di recalcitrare… abbandonarsi, arrendersi… si pensa che siano le donne a farlo per natura o di fronte all’insistenza,  lla pressione delle avances, alla pulsazione del desiderio maschile capace di travolgere ogni ostacolo nella sua cieca corsa verso il compimento. Credo invece che non vi sia nulla di paragonabile al sollievo quasi infantile del sentirsi vinti, espropriati di una forza che non costa nulla perdere perché in realtà non la si possedeva affatto, nulla di autentico e dolce quanto l’abbandono maschile in seno a qualcosa che sente esistere prima, dopo e malgrado lui, l’elemento femminile. “Quella sensazione beata tesa fino alla stupidità” la definisce Turgenev, che ne è stato uno dei narratori più intimi e precisi. Qualcosa come una causa di cui noi non siamo che l’effetto. A cui dunque risalire con gratitudine, come tutte le volte in cui si sperimenta di essere davvero in presenza di un principio, un principio assoluto, oltre il quale non si può procedere, una matrice originaria: di fronte a monumenti antichi, sentendo parlare una lingua dimenticata, cedendo al sonno, galleggiando in mare, prendendo atto della morte di una persona cara o di un animale che abbiamo avuto vicino.

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Arthur Leipzig, 1950

Sì, qualcosa di desiderabile. Sentirsi in balia, dispossessati, puri strumenti del volere o del piacere altrui è al tempo stesso la più orribile e sinistra delle sensazioni ma anche un elemento fondamentale dell’esperienza amorosa, senza il quale non vi è apertura, non vi è relazione, non vi è conoscenza. Ogni passione nasce da un sequestro, è essa stessa un sequestro, cioè l’effettiva perdita di padronanza su di sé, sul proprio corpo, sulla propria identità, che verrà rovesciata come un guanto, sottoposta a prove esaltanti e mortificanti, e poi abbandonata come un peso inutile. La passione consiste nell’abolire ogni diritto, ogni garanzia, tutte le faticosamente conquistate insegne individuali, prima considerate inalienabili: idee, sentimenti, convinzioni, proprietà, integrità fisica e morale, persino il nome, residuo ultimo della definizione personale, verrà deposto, nella passione, e sostituito da nomignoli imbarazzanti e generici, infantili o grotteschi, osceni. Chi tiene con orgoglio al proprio nome dovrà stare alla larga dalle passioni e dal loro contagio squalificante. Eppure l’invidia verso il femminile resta fortissima, e non si trova modo di porvi rimedio. L’unica è ricorrere a una brutale compensazione. È una legge già vista: quando l’angelo di Dio si prende l’anima, allora il diavolo si impadronirà del corpo. Siccome è sempre la donna a dare inizio, l’uomo per ripicca si usurpa il diritto di porre fine, ponendosi così all’estremità opposta della vita, dove gli antichi immaginavano vegliassero comunque divinità femminili. Il ragionamento è semplice: se non posso passare alla storia perché ho eretto il Colosseo, passerò alla storia perché l’ho distrutto. Se non posso dare vita a qualcuno, non mi resta che levargliela. In realtà l’universo è asimmetrico; tutto è asimmetrico, sbilanciato; il simbolo più ingannevole, quello taoista del perfetto equilibrio tra yin e yang, tra chiaro e scuro… macché! Tutto nella vita così com’è davvero, è asimmetria sbilanciamento schiacciamento di forze che
non sono mai, dico MAI pari tra di loro. Dura un istante l’equilibrio, la sospensione… poi una forza di gravità implacabile fa precipitare tutto da un lato. Quando a proposito dei conflitti di oggi si parla di guerra asimmetrica, mi viene da ridere: ma perché, ne è mai esistita una che fosse equilibrata, simmetrica? Ma se erano sempre tre contro  uno, dieci contro uno, Davide contro Golia! Sempre! In tutte le grandi e leggendarie battaglie di cui ho letto i resoconti, le forze in campo erano sempre impari. Non necessariamente ha vinto quella con gli effettivi più numerosi, certo, ma allora vuol dire che l’asimmetria si realizzava in altri campi, negli armamenti, nella perspicacia o nella codardia dei generali, in come i soldati venivano nutriti… o da quanti giorni non mangiavano prima di combattere. Nemmeno Cip e Ciop sono simmetrici, nemmeno i gemelli: ce n’è sempre uno che conduce, che comanda…
La cosa che a prima vista il mondo maschile teme di più è la dipendenza. Questo perché la mascolinità pura dovrebbe consistere nel suo esatto contrario, vale a dire nell’autonomia, nella fiera indipendenza: avere e conservare gelosamente in sé principio e fine. Mentre la donna li cerca nell’altro: nell’incontro con l’uomo ma più ancora nei figli, che sono un significativo spostamento del baricentro della propria vita fuori di sé. A questo schema corrisponde l’idea che la tendenza ascetica sia tipicamente maschile mentre la sessualità, intesa come regime del desiderio e della dipendenza e della procreazione, sia una caratteristica femminile. Il ragionamento perciò si conclude con un’inferenza: se l’uomo così spesso abbandona il suo percorso ascetico, che solo potrebbe tenere al riparo la sua mascolinità dal rischio mortale della dipendenza, questo avviene perché è stato trascinato nel gorgo dalla sessualità, di matrice femminile. Egli precipita nella dipendenza sessuale amorosa e familiare abdicando al principio stesso della mascolinità. Abbandonandosi tra le braccia di una donna, sarà perduto… felice, appagato, beato, eppure perduto. (Non si spiega altrimenti il celibato dei preti cattolici.)
Di questa perdita egli cerca allora una controparte, una compensazione: se mi tocca precipitare, e smarrire la mia dignità e la mia stessa identità maschile in questa caduta, colei che mi trascina verso il basso dovrà pagare caro quello di cui potrebbe vantarsi, e cioè di avermi sottratto la mia indipendenza, incatenato, legato al palo, di avermi succhiato via le forze. Una volta fatto schiavo non posso più riacquistare la mia libertà e il controllo sulla mia vita, ma proverò a distruggere quella che considero la colpevole di quanto mi è accaduto. Muoia Sansone eccetera, ma non con tutti i filistei, piuttosto con quella donna che è stata capace di rendermi debole come una donna.
Una parte dell’ostilità che l’uomo porta con sé nell’amplesso, talvolta esasperata sino alla crudeltà, si deve a questo complesso della cadutaChe non ha dunque la pretesa di rafforzare un dominio, ma al contrario, assume i tratti della vendetta di colui che si sente dominato. (Per quanto resti misteriosa questa visione del dominio femminile esercitato attraverso la passività…)

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fotogramma di Film Rosso, Krzysztof Kieślowski

[…] La donna disinvolta seduce l’uomo perché è disinvolta, la donna ritrosa e pudica perché è ritrosa e pudica. Comunque la si giri il risultato è il medesimo, tanto da far pensare che l’uomo venga attratto indipendentemente da quello che una donna fa o non fa, è o non è, come il moscone dalla lampada. Basta che la lampada sia accesa, la donna viva. Filosofi che tendono a spiegare ogni comportamento in modo antifrastico, intravedendovi una nascosta saggezza della natura, un’astuzia o un trucco biologico, sostengono che il pudore femminile non serva affatto a respingere gli uomini, bensì a eccitarli. La riservatezza delle donne ha dunque poco a che fare con purezza e castità, dato che provvede ad alzare il livello del desiderio maschile, a selezionare tra i pretendenti coloro che sono più dotati delle energie necessarie per superare il suo ostacolo. Non è dunque uno scudo ma un magnete. Sembra proteggere e respingere, mentre seduce. Una volta spiegato in questi termini, il rifiuto femminile al coito è interpretabile al rovescio, e cioè come un invito, sia pure mascherato, camuffato nel suo opposto, tanto per vedere come reagisce l’uomo, se non si scoraggia di fronte a quel no che è stato piazzato lì solo per saggiare la sua capacità di saltarlo. L’ipotesi che il no significasse semplicemente e definitivamente no può essere presa in considerazione solo a posteriori, oppure ignorata. Cancellata. Una donna  che dice no senza che almeno una piccola parte di lei si contorca dalla voglia di dire sì è inconcepibile. Con le donne basta insistere. Sono i livelli dell’insistenza, il tipo di pressione e la superficie spirituale o fisica su cui questa si applica a rendere ogni caso diverso dall’altro per successive gradazioni, o sfumature, che vanno dal corteggiamento ostinato alla molestia alla violenza sessuale, tutte fondate e unificate dall’idea che la ritrosia sia rituale e vada comunque vinta, o almeno ci si debba provare, a vincerla. Altrimenti non si saprà mai come poteva finire. Non me la sento di affermare che questo sia interamente falso. Non lo è del resto in nessuna cosa che uno desideri davvero ottenere – soddisfazioni, riconoscimenti, denaro, giustizia, successo, persino l’amore, sì, persino in amore funziona così: l’insistenza è capace di abbattere qualsiasi barriera, rovesciare qualsiasi posizione e dichiarazione iniziale. La strada che conduce da un no a un sì può essere tortuosa e accidentata ma non è che non esista o sia, di per sé, immorale provare a percorrerla.Non si vede perché tra tante attività umane solo il sesso dovrebbe fare eccezione alla logica della trattativa. Come otteneva un uomo i favori di una donna (deliziosa espressione d’epoca che uso qui apposta)? Con la seduzione, con la persuasione, con il dono, con il pagamento (forma non eufemistica del dono), con il matrimonio, con la coercizione. Anche dopo la riforma dei costumi sessuali, quei metodi restano validi, magari in forma meno palese o cambiati di nome. Ci si sforza di tenere aperta la strada del sopruso: se viene meno la coercizione esercitata coi matrimoni combinati, questa verrà convogliata nello stupro. In effetti, la passività e l’inattività presentano i loro vantaggi. Chi rimane immobile, chi può permettersi di mantenere l’immobilità, è sovrano: chi invece è costretto ad agitarsi a sforzarsi a faticare, è sottomesso. Mentre dà l’impressione di vigoria perché assume l’iniziativa e guida le attività, in verità ne è servo, ovvero è asservito allo scopo che si prefigge. L’intraprendenza erotica maschile rassomiglia ai doveri di un mero esecutore, obbligato ad affannarsi per centrare l’obiettivo, nevrotico e assillato come un rappresentante di commercio che deve portare a casa dei contratti, realizzare delle vendite, a tutti i costi. È abbastanza inesatto dunque il noto proverbio secondo il quale in amore vince chi fugge: in amore, in realtà, vince chi non fa nulla. O fa il meno possibile. Il desiderato, dunque, non il desiderante, tutto preso nel vortice delle sue iniziative. Alla fine, per quanto invidiabile, non è così diverso da un garzone che si sobbarca un gran numero di consegne. A godere delle quali sono le sue pigre clienti. Lui si fa in quattro, si sbatte, corre di qua e di là, si affanna dentro e fuori da fiche regalmente immobili, che alla fine, secondo il noto giudizio di Tiresia, l’unico in grado di giudicare da entrambe le visuali, ricavano i nove decimi del piacere scaturito da tutto quel darsi da fare. La lotta tra ricchi e poveri, tra vecchi e giovani, tra uomini e donne: vengono combattute da millenni, l’ultima è la meno clamorosa, ma forse si tratta della più antica. Mentre le altre guerre conoscono momenti di tregua o stagnazione, questa no, a meno di considerare l’amore come una specie di armistizio o di intervallo di pace, cosa peraltro assurda dato che è proprio l’attrazione e la necessità reciproca a causare il conflitto, e negli sviluppi dell’amore questo può raggiungere punte di massima virulenza. (Diciamo che, nell’amore, la guerra tra i sessi conosce il suo massimo splendore epico e, comunque vada, crea episodi di struggente bellezza.) Se uomini e donne potessero vivere ignorandosi, non si scatenerebbe tra loro la minima violenza, ed è improbabile che gli uomini si deciderebbero a porre in schiavitù le donne esclusivamente per il loro comodo, cosa che avviene solo in seguito, come effetto secondario, anche se pervicace, della fatale attrazione che li lega ad esse. Oltretutto, mentre i poveri e i ricchi si incontrano più di rado, quasi per errore, e conducono esistenze separate, poiché la ricchezza in definitiva non è altro che la possibilità stessa di questa distinzione, di questa separazione, che tiene i poveri fuori dal recinto di ville supersorvegliate, macchine blindate, quartieri residenziali, spiagge deserte, lounge e club e ristoranti “esclusivi” (il termine stesso designa un regime di segregazione), e i vecchi e i giovani generalmente non ne vogliono sapere gli uni degli altri, gli uomini e le donne al contrario s’incontrano e si scontrano e si mescolano e si accoppiano ovunque e di continuo. Il loro sfregamento senza sosta produce una musica impercettibile come quella delle sfere celesti che ruotano l’una dentro l’altra. Se solo si potesse sentire il rumore di questo attrito incessante, sarebbe un rombo da scuotere la terra! Ingenuo pensare che sia l’accoppiamento a mettere fine al conflitto, che invece assume forme diverse, viene per così dire fissato e sublimato, regolato e reso endemico, mentre è proprio al suo interno che avvengono gli scontri, le battaglie più crude. L’accoppiamento può persino rendere il conflitto permanente, mantenendolo a bassa intensità. In quei casi la dose di tormento da infliggersi reciprocamente viene mantenuta solo un millimetro sotto il livello dell’esplosione, in cui sarebbe letale, e serve a cementare tra loro i membri della coppia con il collante di un sadomasochismo blando ma durevole. In qualche caso, raro ma non rarissimo, e molto significativo, l’accoppiamento assume la forma pura dello scontro, breve e violento: e questo è lo stupro.Ma non vi è soluzione di continuità tra le varie forme di contatto tra sessi: ognuna ha a che fare con tutte le altre, ognuna conduce in poche mosse a quella opposta, dalla più dolce alla più brutale.

E la violenza è per lei come un dono.” (Ovidio, Ars, I 992-993)

Gilbert Garcin

Gilbert Garcin

In verità solo l’amore, quando non la esacerba, può far superare l’ostilità primordiale tra i sessi. L’amore offre al tempo stesso la migliore occasione di scontro e di identificazione, di conflitto e di attrazione. Spesso finisce che ci si sposa per non combattersi, o per continuare a farlo al riparo di un istituzione che regola i conflitti e li fissa in forme convenzionali, quelle che poi finiscono dritte nelle barzellette sulla vita coniugale. (Una delle più implacabili è quella del frate e della suora che, per ragioni che è inutile precisare e formano la base di qualsiasi storiella, si ritrovano a passare una notte nello stesso letto. Buonanotte, buonanotte, e ognuno si gira dalla sua parte. Ma la suora sente freddo e allora il frate si alza e le va a prendere una coperta, gliela stende addosso. Ma dopo un po’ la suora si lamenta di nuovo: «Fratello, sto gelando…» e lui si alza e la va a prendere un’altra coperta. Ma lei non riesce a riscaldarsi, «Ho freddo, ho ancora freddo», e lui gentilmente le porta un’ennesima coperta. Ma la suora non desiste e avanza una nuova proposta, «Fratello, sento ancora un freddo terribile in questo letto… cosa dite, perché non facciamo come marito e moglie?», e lui «Ah, vuoi fare come marito e moglie? E allora vattela a prendere da sola, la coperta!».)
A scuola, lo studio del greco era difficile e noioso, non l’ho mai imparato bene, per fortuna c’era la mitologia. Mi ci ero appassionato fin da bambino. Per questo la cito così spesso, e i suoi insegnamenti sono gli unici a cui credo. Tra gli dei greci, il personaggio senz’altro più virile è Atena, il secondo Artemide. Seguivano a distanza Ares, che tuttavia rappresenta solo il lato mortifero del carattere maschile, quindi Zeus, che può apparire molto maschio con tutte quelle sue avventure e amanti, ma in verità è compromesso col lato femminile, arrivando a riprodurlo, a includerlo in sé: del resto, se la sua potenza dev’essere libera di dispiegarsi in ogni direzione, non può venire limitata e costretta dai confini di un’identità sessuale, ed è per questo Zeus resta incinto. E partorisce Atena dal suo cervello e Dioniso dalla sua coscia, a ribadire che è capace anche di quello: portare a termine una gestazione. La sua energia è così sovrabbondante da incorporare in sé o riprodurre virtù femminili. Un maschio a suo modo tipico è Efesto, l’uomo la cui virilità viene eccitata e frustrata di continuo: dal suo infelice matrimonio di facciata con Afrodite, il cui corpo è per definizione condiviso, alla farsesca lotta per possedere la vergine armata Atena, che si conclude con un getto di sperma nella polvere. Cornuto e onanista, Efesto è l’emblema del maschio non come dovrebbe essere, vale a dire guerriero valoroso, seduttore irresistibile, indiscussa autorità familiare eccetera, bensì come in effetti è. Disperatamente bisognoso di un briciolo di tenerezza sensuale, storpio non solo nelle gambe ma nella capacità di amare ed essere amato, il poveretto si sfoga nel lavoro, forgiando a martellate fulmini non suoi, espropriato anche di quei simboli di potenza, respinto dalla madre, schernito dal padre, abbandonato ogni notte dalla moglie, avendo come figlio un mostriciattolo dalla coda di serpente nato da una sua grottesca polluzione… Nel campo femminile subito dopo Afrodite viene, danzando, Dioniso, dalle chiome e dai fianchi arrotondati come quelli di una fanciulla. Anche qui si tratta di una potenza che non può confinarsi sessualmente, come invece fa Apollo, il dio della separazione netta e che infatti soffre e fa soffrire per la tagliente, dolorosa chiarezza delle sue iniziative. Dioniso è liquido come la bevanda, serpeggia, imbeve di sé e della sua follia i virtuosi sostenitori del principio autoritario, cioè, maschile. Quando i pirati che lo avevano rapito fanciullo se lo vogliono scopare, tutto sulla loro nave si fa all’improvviso storto, serpentino, molle, ondeggia, le sartie diventano liane e viticchi, e i remi serpenti…
Poi c’è Demetra speculare ad Ares nel dar corpo a uno e uno solo degli aspetti che caratterizzano il suo sesso. Entrambi accentuano la differenza tra maschile e femminile fino all’esasperazione: tanto Ares è ottusamente violento, così Demetra interpreta la madre in modo esclusivo e possessivo, la grande madre, l’utero pronto ad accogliere a gonfiarsi a germinare, la madre generosa e sconsolata, la matrice feconda e afflitta… Per nulla interessata agli altri giochi, non ha in mente altro che il destino di restare gravida, per poi venire privata del suo frutto. Se il giovane Ares gioca con le armi, in modo feroce e solitario, Demetra fin da piccola fa dondolare una culla. Entrambi hanno una tendenza autistica e sono posseduti da una fissazione: l’una a procreare, l’altro a distruggere.

Ehi, mi ascoltate ancora?
Ancora avete voglia di venirmi dietro?
Allora continuo un altro po’.

Questa storia si svolge in un’epoca in cui le donne, quasi tutte le donne, diventarono in un brevissimo giro d’anni molto più disponibili per gli uomini, dieci volte più disponibili, e di conseguenza dieci volte più minacciose. La nuova libertà erotica sommandosi ad altre forme di emancipazione e potenziandole, parve aumentare la loro influenza. In ogni epoca, dalla Grecia di Socrate al medioevo cavalleresco alla corte di Louis XV, il sesso ha avuto questo effetto, di far correre un brivido lungo la schiena acuendo la consapevolezza fino allo spasimo, spalancando nuovi fronti su cui in seguito combatteranno la scienza, l’etica, la filosofia e la politica. Si direbbe che il sesso riguardi la vita privata degli individui, unicamente la loro camera da letto, e invece scuote da cima a fondo l’intera società per poi rimodellarla in forme nuove, riposizionando tutti i valori, riformulando i rapporti. Le relazioni erotiche tra uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna, sono ciò che causa il movimento della vita individuale come di quella collettiva, la ragione per cui si combattono le guerre e ci si riconcilia, il fondamento dell’intelligenza, la causa e insieme il fine di ogni impresa, la chiave per disserrare i misteri e il significato recondito di qualsiasi indizio… Le relazioni sessuali occupano la mente del giovane e, in modo ossessivo, quella del vecchio, se non come desiderio come sogno, ricordo, rimpianto, e permeano i pensieri del casto non meno che del licenzioso. La passione sessuale è l’origine stessa della personalità e il modo che essa ha di attingere se stessa. Gli uomini allora sentirono di dover pagare comunque l’accesso facilitato al coito, doverlo pagare non più col denaro ma con la moneta di un’ansia forse mai provata in precedenza. Un’ansia provocata dal trovarsi al cospetto di una potenza femminile ignota, scatenata dai nuovi costumi sessuali e dalla pillola contraccettiva che li rendeva di colpo virtualmente inarrestabili. Per gli uomini, insomma, scopare continuava ad avere un costo, sebbene non dichiarato e meno identificabile di un tempo, dunque meno facile da pagare, o meglio, da scontare. Come? Quanto? Per quanto tempo? A chi? La disponibilità femminile al principio festeggiata come una liberazione o, più cinicamente, come una cuccagna per i maschi che ci si buttavano a capofitto, trascorsa la precoce fase pionieristica iniziò a mostrare i suoi lati inquietanti. Tutto ciò di cui non si sa fin dove potrà spingersi, provoca sgomento. Come un secolo prima, si allungò sull’Occidente uno spettro, festosamente minaccioso – e non era il comunismo. Si prestava a essere impiegato per spaventare i bigotti o burlarsi di loro, ma quest’uso irriverente era una bazzecola rispetto alla vera eversione di cui era portatore: qualcosa che scuoteva l’albero del bene e del male facendone cadere a terra i frutti.

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Francesca Woodman

I desideri incompatibili con la realtà che animano un bambino e un adolescente sono destinati a tramontare, ed è un declino tormentoso. La vita sessuale a quell’età si può considerare purissima, immacolata, quasi cristallina, o al contrario, come massimamente impura, dato che è fatta solo di sogni e desideri, e quasi mai di realizzazioni. Ora, è più perverso un sogno oppure una realtà? Come molti altri ragazzi, ma con un’acutezza che credo fuoridal comune, in me quel tramonto si è accompagnato a un’immensa, inspiegabile sofferenza. E questa sofferenza, questa mostruosa inquietudine non è mai cessata, ha di continuo cambiato forma e intensità, e dal momento in cui è diventato possibile soddisfare almeno una parte di quelle sterminate e vaghe fantasie di piacere che mi attraversavano come meteore giorno e notte, la situazione invece che migliorare è peggiorata, la frustrazione per non essere riuscito e non potere soddisfare tutte le altre fantasie è aumentata a dismisura, diventando una spina, un’ossessione, una vera infelicità. Infelicità di cosa? Per cosa? Potrei dire di aver avuto sin qui una vita piena e fortunata, e infatti lo dico, comparativamente, quanto meno. Allora di che mi sto a lamentare? Di niente. Qual è il guaio? Nessuno. Io non mi lamento, io sono un lamento. Soffro ogni singolo istante che non vengo toccato, che non posso stringere, accarezzare, che non posso penetrare: dunque la grandissima parte del tempo che vivo.
La mia fame non si placa mai. Altro che seno buono e seno cattivo! I seni sono tutti cattivi con me, quelli che mi si negano ma anche quelli che mi si concedono, che stringo, carezzo, succhio, perché non mi si concedono mai abbastanza, vorrei stringerli e succhiarli ininterrottamente. Il seno buono non è buono perché, già lo so, lo so in anticipo (e per questo lo odio), tra breve diventerà cattivo, e mi si negherà.
È la felicità, è la stessa compiutezza toccata per un istante, a generare l’infelicità. A dare la misura abissale che separa la vita possibile dalla vita ordinaria. Mi sembra di capire che sarebbe assai meno infelice chi non avesse mai conosciuto alcuna soddisfazione del proprio desiderio, colui al quale il seno sia sempre stato negato; la sua sarebbe un’infelicità netta, pura, limpida, non chiazzata qua e là da macchie di piacere che la rendono, oltreché insostenibile, oscena, sporca, indecorosa, e persino ridicola, ma sì, ridicola, perché uno sta sempre lì a frignare che gli ridiano il giocattolo che gli hanno levato, il suo rocchetto di filo, il seno morbido e pieno, la dolcezza illusoria e sterminata fino a un istante prima che riattacchi lo stimolo, la smania. Io sono così smanioso che quando ero bambino ho imparato la dura legge della posposizione del piacere, per forza di cose, a scuola, a casa, l’ho capita e digerita quella dura lezione, ma poi l’ho dimenticata, eh sì, suonerà incredibile ma crescendo me la sono scordata, e a diciotto anni ero già lì di nuovo a frignare, a venticinque non ne parliamo e a quaranta o cinquanta ancora peggio, va sempre peggio, mano mano che passa il tempo. Più si allontana l’infanzia più sono strozzato dalla rabbia e dall’autocommiserazione, se non mi restituiscono subito il mio rocchetto, divento rosso e soffoco di stizza e dolore, se non si scoprono il seno e me lo danno. Vivo di queste ricompense e di queste offerte, che credo immeritate, e sempre inaspettate, ma che se non arrivano puntualmente, ogni volta che ne sento il bisogno (cioè, sempre) ogni giorno e ogni minuto della vita mia, mi riempio di stizza e di lacrime. La mia non è una ferita narcisistica, come la definiscono i libri: è una voragine. Una spaccatura che mi attraversa dalla testa ai piedi, come quei personaggi danteschi, o il famoso visconte di Calvino, con una bella differenza, però: che lì la fessura aveva diviso Medardo di Terralba in due parti distinte e opposte, l’una buona e l’altra malvagia, mentre i due tronconi in cui sono spaccato amano desiderano vogliono e soffrono e si contendono le stesse cose: cibo, bellezza, stima, sesso, oblio, brividi, intelligenza, abbandono e riposo, ma è solo uno dei due miseri tronconi a ottenerne qualche scampolo mentre l’altro rimane a secco. Dunque c’è sempre una parte di me che soffre abbandonata a se stessa mentre l’altra gode: è la parte che già prevede l’istante in cui il godimento cesserà, e se ne dispera. La lama del narcisismo mi spacca in due parti uguali che si guardano allo specchio e si ammirano, si compiangono, si detestano e disprezzano per la loro impotenza. Malgrado io abbia speso infinite ore studiando e tentando di praticare le più alte forme di saggezza umana, per quanto era alla portata dei miei mezzi spirituali, la smania non è andata affatto diminuendo, sono solo diminuite col tempo le energie con cui essa si esprime, in forme più estenuate ma per questo acuite: in altre parole non sono affatto più saggio ma solo più vecchio. E a forza di ripresentarsi, i desideri smaniosi e illimitati, incensurabili, che poi forse si riducono a uno solo, essere amato, sì, essere amato qualsiasi cosa significa questa espressione e qualsiasi sfumatura o forma assuma questo desiderio e in quale gesto si declini, l’infinito protrarsi dello stesso stato e sempre della medesima reazione a quello stato (come dicevo, un misto di rabbia, autocommiserazione, languidezza, passività, orgoglio, persino brutalità, qualcosa nel cui fondo ho intravisto come i tratti femminei e quelli virili del carattere, più che mescolarsi e intrecciarsi, coincidevano, si identificavano, erano in realtà una stessa identica cosa, il che mi ha rivelato una volta per tutte che uomini e donne hanno la stessa identica natura, vogliono desiderano e temono le stesse cose, o cose diverse ma nello stesso identico modo, li costituisce cioè un unico elemento desiderante… e non può esservi un desiderio più isterico e stizzoso di concupire delle armi invece che delle vesti e dei gioielli, dunque sul serio Achille non ha niente di diverso da Deidamia, lui si butta sulle spade e le asce con la stessa frenesia che la principessa e le sue sorelle provano nel buttarsi sulle perle e sulle sete – cosa cambia se l’intensità, l’emotività, l’eccitazione sono le stesse anche se il loro oggetto è diverso?), a forza di ripetere e ripetere la medesima illusione e delusione, come una falena che continua a cozzare contro la lampada dalla cui luce è attirata, rimbalza sul vetro, e trova le forze per battere le ali solo per tornare a cozzarvi, ogni volta provando l’identico dispiacere ma incapace di registrare quel dato di fatto, oppure inventando la formula mostruosa per cui quello sciocco urto sul vetro diventa esso stesso piacevole, sì, piacevole, alla fine lo scopo è quello, l’oggetto del desiderio è cambiato ed è diventato quello di farsi male, il più male possibile, andando a sbattere contro la barriera. Non importa più la luce che sta dietro il vetro, non la si vede più quella luce, c’è solo il vetro contro cui rompersi la testa con maggior dolore, facendo più rumore, disperdendo la polverina colorata dalle ali che battono in modo frenetico. A questa ripetizione mi sono affezionato, come a ogni cosa che accompagna a lungo una persona, anche se negativa, ho finito per legarmi ad essa, visto che oramai ero diventato io, quello, quella farfalla impazzita. Ed eccomi dunque felicemente infelice, satollo della mia insoddisfazione. Finché non mi butto da una finestra, vuol dire che le cose sono filate lisce, la vita è andata, dove, non lo so, eppure è andata, fino, appunto, a quel davanzale e a quella finestra spalancata. Solo la finestra è una garanzia. Dal punto di vista della comprensione il vero problema è che, ripetendo e ripetendo, non ho capito nulla più di quanto non avessi già capito a diciott’anni. Il riproporsi all’infinito del medesimo schema mi ha protetto, mi ci sono accucciato dentro. E anche adesso, non voglio saperne di più. So che soffro e che nessuno può capirmi, inclusi quelli che mi capiscono, nessuno mi ama, inclusi quelli che mi amano, anzi, costoro li odio ancora di più, con loro sono furibondo, poiché, visto che mi amano, be’, allora dovrebbero amarmi di più, molto ma molto di più, non dovrebbero smettere un istante di amarmi, di pensare a me e dedicarsi a me. E invece cosa fanno: a un certo punto smettono. Si volgono altrove. Pensano ad altro, amano altri. E la nube della sofferenza mi avvolge. Non esiste che quella nebbia scura, fredda, che mi punge, mi trafigge.
Le mie parole non sono che lagna, lo so, ma è quello che provo, che penso, anche in questo preciso momento sto provando e pensando solo questo, non ci crederete ma ho il cuore gonfio di amarezza e autocommiserazione, senza alcun motivo. È una giornata bellissima, di sole e vento, prendo atto delle cose meravigliose che mi sono accadute, dei luoghi indimenticabili da me visitati, delle persone straordinarie che ho incontrato, conosciuto, le cui opere ho letto e ascoltato e ammirato, degli individui fantastici che ho avuto vicino o che addirittura ho contribuito a generare io con il mio seme, e pure a questo libro vorrei confidare solo il desiderio di scavalcare quel davanzale. Tutte le cose belle congiurano contro il mio umore, mostrandomi, additandomi, quello che, se mai ho avuto, ho perduto. Ho perduto appunto perché l’ho avuto. La pienezza, la beatitudine, sono pietre di paragone insostenibili, la loro radianza uccide. Mi sento perennemente esiliato da quella pienezza, da quella integra felicità, negli istanti in cui l’ho avuta (non pochi, in verità, ma passeggeri, frequenti quanto effimeri) non mi era possibile goderla appieno. Quando si dovrebbe godere, non si gode, si gode solo dopo, in un secondo momento, che può arrivare anche molto presto ma quando l’appagamento è terminato, si gode pensando e ricordando quanto si è goduto e rimpiangendo di non godere più a quel modo. Chi gode, nell’istante in cui gode, non prova nulla, il piacere essendo solo retrospettivo, ed è appunto quello il segno che stava godendo: il fatto di non provare nulla. Il piacere starà nell’interpretazione, nel rimpianto, nell’abbandono, è lì che si instaura e trova la sua misura, dunque è inevitabile che contenga in sé il dispiacere, senza il quale non saprebbe valutarsi, apprezzarsi. È questo, sempre, ogni romanzo: la narrazione di un’infelicità.

Leos Carax Holy motors

fotogramma Holy Motors, Leos Carax

4 commenti su “La femmina secondo Edoardo Albinati

  1. Pingback: Porca l’oca | Il paese dei gatti

  2. Pingback: Cosa vuol dire essere maschi? | postpank

  3. postpank
    11 luglio 2017

    grande Albinati, bel post. Condivido.

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